La letteratura del Veneto è notoriamente una delle più ricche dal punto di vista della gamma e del rilievo dell'uso "riflesso" del "dialetto", o meglio dei "dialetti". Soprattutto nella straordinaria densità e rilievo della sua letteratura teatrale, da Ruzante a Calmo e Giancarli, dalla fitta e meno nota schiera degli autori del Seicento, da Goldoni a Gozzi, da Selvatico a Gallina, da Simoni a Rocca a Palmieri, per limitarsi a pochi nomi. E ciò senza contare la parallela - e ancora viva - tradizione nei registri della poesia, che al contrario della pratica teatrale, che privilegia normalmente le parlate cittadine e su tutte il veneziano, utilizza le parlate delle "piccole patrie", un caso per tutti l'"idioma" di Pieve di Soligo per Andrea Zanzotto.
Non si deve, naturalmente, confondere lo scopo di un'iniziativa come questa con le rivendicazioni, anche politiche, di una "lingua veneta" per la comunicazione, come lingua ufficiale. Una lingua che non è mai esistita. E' una semplice leggenda che la Cancelleria veneziana scrivesse i suoi atti in veneto e la creatura che deriva da questa e altre invenzioni retrospettive non può che essere un mostro, che mescola usi diversi in qualcosa che non è mai appartenuto né alla storia né alla tradizione né tantomeno alla pratica viva del parlato.
Non è mai esistita infatti una lingua "regionale" o che coprisse tutto il territorio dell'antico stato veneziano, ma piuttosto una lingua centrale, il veneziano, e altre lingue o dialetti, nelle molteplici varianti territoriali e nei diversi gradi di apertura alla comunicazione mercantile. Questa ricchezza è servita alla multiforme gamma della rappresentazione e della deformazione parodistica della realtà, dalle epoche che ritraevano il crogiuolo di lingue e nazioni presenti o transitanti per Venezia a quella in cui questi tratti si sono fissati in personaggi stereotipi - le maschere - fino a quella più recente che riscopre i caratteri e il rapporto con la rappresentazione del quotidiano.
E quindi è proprio la pluralità delle lingue e delle tradizioni, sia dal punto di vista cronologico che della distribuzione territoriale, a rendere più rilevante un'impresa come quella che l'Accademia si propone. Invece di inventare tradizioni mai esistite, il suo proposito vuole essere insegnare le differenze e le caratterizzazioni. E' evidente infatti che il pavano di Ruzante non è il veneziano misto delle commedie del quasi contemporaneo Andrea Calmo, che il veneziano "civil" di Carlo Goldoni non è la stessa lingua che userà nel secolo successivo Giacinto Gallina e che, a sua volta, è completamente diversa dal veneto di terraferma di Simoni o di Palmieri, tra la fne dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. Il desiderio alla base dell'Accademia è appunto quello di ripercorre e conservare questa varietà di voci, tradizioni e lingue.